Clima

CAMBIAMENTI CLIMATICI: FLUSSI MIGRATORI, RISORSE PRIME E MERCATO SI INTRECCIANO E CI CHIEDONO DI RINNOVARE IL NOSTRO PENSIERO

15 Febbraio 2017

Secondo la convenzione sullo Statuto dei Rifugiati del 1951, meglio conosciuta come Convenzione di Ginevra, un rifugiato è: “Una persona che ha subito persecuzioni o che ha il fondato timore d’essere perseguitato per motivi di razza, etnia, appartenenza ad un determinato gruppo di idee o politiche”. Il documento fu stilato in un periodo nel quale il cambiamento climatico era un tema ben lontano dall’assumere la rilevanza odierna, ed almeno altrettanto distante dalla stessa correlazione con il fenomeno dei rifugiati.

Negli anni ‘90 l’ambientalista inglese Norman Myers, considerato uno fra i più autorevoli esperti sull’argomento, definisce i profughi ambientali come: “Persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre d’origine a causa di fattori ambientali di portata inconsueta (siccità, desertificazione, erosione del suolo, cambiamento climatico ecc). Di fronte a queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non aver alternativa se non la ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno del loro paese che al di fuori
”.
Allo stato attuale delle cose, va detto chiaramente, la definizione di “rifugiato climatico” indica l’esistenza di un fenomeno in atto e tuttavia non è giuridicamente riconosciuto da qualsivoglia statuto, nazionale od internazionale che sia.
Sembra che il nodo cruciale di questo intoppo sia dovuto alla difficoltà giuridica di slegare un insieme di eventi interdipendenti che spesso intrecciano sì il migrante ai mutamenti climatici, ma anche ad un folto insieme di fattori sociali, economici, politici, occupazionali. In sostanza, il codice legislativo risulta uno strumento insufficiente nelle mani delle commissioni preposte alla valutazione per via dell’ampio ventaglio dei casi, molto disomogenei tra loro.

Per aggiungere ulteriore carne al fuoco, volgiamo lo sguardo indietro di poco e torniamo al 22 Aprile passato. In occasione della Giornata Mondiale della Terra si sono riuniti a Parigi oltre 170 paesi che hanno firmato l’accordo globale per la lotta ai cambiamenti climatici, prefissando un primo importante obiettivo: contenere l’aumento della temperatura entro i 2°C (e provando ottimisticamente a non superare l’1,5°C).
Non sorprende il fatto che sia stato contemporaneamente deciso di non vincolare nessuno dei paesi che hanno aderito alla trattativa al rispetto di obblighi specifici, sia per la mancanza di concreti strumenti sanzionatori verso quei paesi che dovessero disattendere gli impegni. Sia per il fatto che, vivendo tutti sullo stesso pianeta, un eventuale collasso di Gaia non sarebbe un evento poi tanto drammatico.

L’aumento dei gas serra derivante dalle attività umane è responsabile del cambiamento climatico, rispetto al periodo pre-industriale la concentrazione di CO2 è aumentata del 40%. Segno che lo sviluppo imperniato sui combustibili fossili che ha dato maggiore benessere ai paesi più industrializzati per alcune generazioni, rischia di sconvolgere la vita di tutti i popoli per le generazioni attuali e future. Anzi, l’impatto maggiore lo subiranno proprio le popolazioni più povere e maggiormente concentrate nel sud del mondo, in quanto peggio fornite di strumenti economici, infrastrutturali, che consentano loro di far fronte al mutamento climatico in atto.
In tempi di riscaldamento globale occorre dunque cambiare quel paradigma con il quale consideriamo l’abbandono del paese di origine come una mera ricerca di condizioni migliori di consumo: spostarsi potrebbe diventare cioè, l’unico modo per far fronte alle minacce che sorgeranno in alcuni “angoli della terra”. Una buona domanda potrebbe non essere più quella di chiederci quante persone possano essere sostenibilmente insediate su un dato territorio, ma piuttosto quanto territorio sia necessario per sostenere una data popolazione, in rapporto a stili di vita e livelli di consumo.

Tra gli argomenti al centro del dibattito culturale attuale si è molto parlato della questione siriana. Oltre ai problemi legati alla politica, alla guerra e all’accoglienza, ci sono aspetti della realtà in Siria che sono stati troppo spesso ignorati dal nostro dibattito pubblico.
Nel 2010 un articolo apparso sul New York Times riportava la grave crisi dell’agricoltura siriana in seguito a quattro anni di pesante siccità, la peggiore che questo popolo abbia mai affrontato negli ultimi quarant’anni. Le falde acquifere a secco, l’abbandono di centinaia di villaggi, il progressivo processo di desertificazione dello stesso suolo coltivato fino a poco prima e la susseguente moria del bestiame da pascolo. L’aumento del prezzo della benzina, il crollo del mercato interno, il raddoppio del costo del pane e di altri beni di prima necessità sono le ovvie conseguenze.
La terra dell’allora Mezzaluna Fertile si è trasformata in una zona arida dalla quale fuggire, e non è difficile capire che questi fattori di instabilità ambientale abbiano innalzato la tensione e influenzato, almeno in parte, la guerra civile iniziata nel 2011 contro il governo di Bashar Al-Assad. Le rivoluzioni partono dalla pancia, dicevano i nostri nonni.
Christopher Schar, ricercatore dell’Istituto per le Scienze del Clima e dell’Atmosfera di Zurigo, sostiene come la combinazione tra alte temperature e umidità potrebbe, in circa un secolo, portare il clima dell’area del Golfo Persico a divenire incompatibile con la vita umana. La temperatura vedrebbe raggiungere per città come Kuwait City (Kuwait) e Doha (Qatar) picchi di sessanta gradi o più.

L’erosione del suolo non si sta verificando soltanto con il processo di desertificazione, sotto i nostri occhi il progressivo innalzamento del livello del mare sta già impattando sulle zone più delicate del nostro ecosistema. Un esempio sono le piccole isole del Pacifico che assieme al terreno costiero, stanno perdendo la propria produttività agricola a causa della salinizzazione della terra. In Papua Nuova Guinea, le centinaia di abitanti delle isole Carteret sono costrette all’evacuazione che potrebbe completarsi già alla fine di questo decennio; situazione pressoché identica per i duemila abitanti dell’isola di Ontong Java.
A rischiare tuttavia non sono soltanto luoghi dispersi, i cui nomi improbabili, vanno spulciati minuziosamente sull’atlante. E’ il caso ad esempio di Miami, città popolata nell’intera area metropolitana da oltre 5 milioni di abitanti sulla “East Coast” americana.
Anche qui gli effetti sono già visibili ad occhio nudo, i ripetuti allagamenti di alcune zone della città in stato semi-permanente e senza l’influenza di un meteo avverso mostrano l’effettivo innalzamento del livello del mare. Per proteggersi da queste inondazioni la città ha adottato un’imponente opera di sollevamento delle strade dal suolo e sta provvedendo al drenaggio verso il mare dell’acqua in eccesso, attraverso pompe dislocate lungo la costa. Questo rimedio temporaneo farà guadagnare a Miami circa 40 anni: al momento nessuno ha idea di quello che succederà dopo.

L’Europa ha mostrato troppo facilmente l’impulso ad ottenere vantaggi commerciali estremamente a proprio favore prevaricando i paesi più deboli dal punto di vista economico e politico. Questo è il frutto dell’uso scorretto del liberismo economico, la prospettiva di un mercato in crescita come espansione a 360° gradi che vuole colonizzare ogni risorsa desiderata a suo piacimento. La falsificazione dell’avidità rivestita dal costume del libero progresso che non deve essere fermato, è la favola che ci ostiniamo a raccontare.
Non è fantasia, non si parla di complottismo, non è il pessimismo della cronaca ma una realtà alla quale dobbiamo dare più voce se vogliamo trovare un equilibrio sociale stabile e risanato.
Citando un solo fatto di casa nostra possiamo guardare al recente caso di Eni, società che si occupa di produzione e distribuzione energetica. E’ ormai appurato come importanti membri del Consiglio d’Amministrazione siano indagati per aver pagato una tangente da 1 miliardo di dollari ad esponenti del Governo Nigeriano, in cambio della concessione illecita delle licenze di alcuni pozzi petroliferi. Non serve nemmeno dire che la ricchezza generata dall’estrazione di questo petrolio non avrebbe apportato benessere alla popolazione locale, mentre va ricordato come la comunità nigeriana sia una tra le più grandi in Italia e tra le più radicate nel Veneto.
Questo atteggiamento economico miope e destabilizzante sta all’origine dei problemi di molti di quei paesi dai quali i flussi migratori partono, si sta verificando una sorta di effetto boomerang, la legge del contrappasso.
Avendo sfruttato le risorse ed i mercati esteri più deboli abbiamo impoverito le popolazioni locali. Tuttavia, mentre quelle ancora in grado di procurarsi il sostentamento attraverso le attività rurali in qualche modo si reggono sulle proprie gambe, le popolazioni in aggiunta colpite dalle variazioni climatiche perdono la propria sussistenza e vanno più facilmente allo sbaraglio.
L’effetto boomerang consiste nel fatto che ora, oggi, queste popolazioni premono alle porte dell’Europa reclamando il loro diritto ad esistere e vivere una vita dignitosa. Soltanto aprendo reali prospettive di sviluppo e di accesso al mercato per le popolazioni più povere potremo, in un futuro prossimo, interrompere i flussi migratori permettendo a queste persone di abitare il proprio paese d’origine e ricavare i frutti delle proprie terre come spetterebbe loro.
Per questo motivo il rifugio dell’Occidente dietro a classi politiche autoritarie, nella scelta di leader che istigano con troppa superficialità all’odio attraverso un presunto “machismo politico”, che sfruttano il risentimento delle masse impoverite per i tornaconti economici propri e delle imprese che si nascondono dietro alle loro facce di facciata. Costoro, che cercano di legittimare in maniera spregiudicata i propri diritti a danno dei diritti di altri, potrebbero trascinarci verso una deriva pericolosa.

Intavolare accordi commerciali più attenti alle specificità dei paesi partner sarebbe il primo passo e dovrebbe tenere conto di clausole sociali e ambientali, compresa la lotta all’appropriazione massiccia delle terre. Quest’ultimo è il cosiddetto fenomeno del “Land Grabbing”, una pratica che coinvolge Stati ed imprese private come protagonisti di una nuova corsa all’oro che ha come obiettivo l’appropriazione delle terre più fertili in Africa, Asia e America Latina.
Multinazionali e fondi di investimento detengono centinaia di migliaia di ettari di terreni agricoli, tra i principali paesi acquirenti troviamo: Arabia Saudita, Emirati Arabi, India, Cina, Giappone, Corea del Sud, Libia, Giordania, ma anche Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia.
Il secondo danno importante generato da questo mercato consiste nel fatto che i prodotti ottenuti in queste terre vengono perlopiù venduti sulle tavole dei mercati esteri e noi, in quanto cittadini, non conosciamo il prezzo che questo comporta in termini sociali.
Inutile girarci attorno: finché gli squilibri saranno così forti, le persone andranno alla ricerca di fortuna altrove. In un’epoca etichettata sotto la definizione di un perenne stato di crisi economica e disoccupazione, una domanda brillante che dovremmo porci in quanto comunità è se la ricchezza generata attraverso questo sistema finanziario stia apportando vero benessere anche a noi come cittadini europei.

UNO SGUARDO SUL MONDO
E’ facile immaginare come la tendenza storicamente conflittuale dell’Uomo per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta, già normalmente piuttosto elevata, possa essere aggravata tanto più facilmente in situazioni di cambiamento climatico laddove, la risorsa più importante del nostro pianeta, si dimostri insufficiente al fabbisogno umano. Questo almeno, è quanto sta avvenendo per l’acqua.
L’acqua dei fiumi dell’Himalaya è oggetto di contesa tra Cina, Nepal, India e Bangladesh: una delle zone non solo più ricche di risorse idriche del pianeta ma allo stesso tempo tra le più popolose. L’imponente costruzione prevista dal sistema di dighe cinesi potrebbe letteralmente chiudere i rubinetti verso le nazioni circostanti influendo negativamente sui relativi fabbisogni, agricoli e produttivi.
In Asia Centrale l’Uzbekistan è minacciato dalla costruzione di dighe da parte di Tagikistan e Turkmenistan mentre nell’area mesopotamica, Siria e Iraq competono per le acque del Tigri. Forti tensioni tra Egitto e Sudan porteranno alla costruzione della Grande Diga della Rinascita in Etiopia; la costruzione minaccia l’Egitto che trae l’85% del suo fabbisogno idrico dal Nilo Blu.
Il Rio de la Plata è al centro di un contenzioso internazionale tra Argentina e Uruguay, mentre le acque del Rio Grande e del fiume Colorado sono contese tra Messico e Stati Uniti.
Il problema è che questi avvenimenti stanno creando un pericoloso precedente che è quello di considerare le sorgenti dalle quali nascono i fiumi come fossero un bene di proprietà nazionale, un monopolio, alla stregua di altre materie prime.
Il lago Ciad, il settimo lago per estensione al mondo e il quarto in Africa, è un’importante risorsa idrica che tuttavia è localizzata in uno dei territori più vulnerabili alle variazioni climatiche. Il Sahel, regione a sud del deserto del Sahara, è un territorio studiato per i repentini cambiamenti climatici da circa 50 anni, il lago ha cambiato più volte la sua estensione ed è anche sparito negli anni. La sua importanza a livello ecologico, sociale ed economico è data dal fatto che assicura risorse idriche a più di 20 milioni di persone e tutto questo considerando che l’Africa Sub-Sahariana, è una tra le zone a maggiore incidenza per numero di persone che ancora muoiono di fame nel mondo.
Negli ultimi anni infine, è stata registrata una nuova tendenza migratoria che non riguarda soltanto gli uomini: nell’emisfero occidentale mammiferi, uccelli e anfibi tracciano rotte per sfuggire alle conseguenze del riscaldamento globale. La tendenza è quella di cercare luoghi più freddi verso nord (o verso sud nell’emisfero meridionale), oppure salendo di quota.
Alla ricerca di zone più adatte alla propria sopravvivenza, abbandonano le terre più calde ed aride in Sud America verso il meridione, oppure dal centro del continente verso la catena delle Ande attraverso “autostrade” migratorie.
Degli studi condotti sul fenomeno hanno mostrato come i flussi migratori animali abbiano incontrato difficoltà e ostacoli a causa delle barriere artificiali create dall’uomo: cervi, orsi o rane non sono in grado di attraversare i luoghi urbanizzati che diventano muraglie insormontabili. Per questo nel modello proposto dagli scienziati, le catene montuose sono viste come percorsi più probabili poiché la presenza umana è meno invasiva, luoghi come gli Appalachi e le Montagne Rocciose.

A conti fatti gli animali che migrano stanno mettendo in atto una delle regole basilari della sopravvivenza dimostrando come la strategia di adattamento alla vita preveda ampiamente lo spostamento da luoghi inospitali, verso zone più floride e adatte alle proprie caratteristiche biologiche. La dimensione primitiva dell’uomo è la sfera animale: l’atteggiamento delle popolazioni che migrano per le difficoltà climatiche dimostrano piuttosto una forma di continuità strategica con la vita animale che una rottura.
Abbiamo anche visto come al tema ambientale e climatico siano intrecciate problematicità decentrate, le risorse prime, i problemi economico-occupazionali, la politica e i sentimenti umani, le difficoltà nello stabilire convenzioni giuridiche internazionali.
La nostra società storicamente parlando ha ampiamente goduto dei frutti della sua economia, l’innovazione tecnologica ci permette oggi una flessibilità mai vista eppure la disoccupazione giovanile racconta di un mercato in crisi, nel quale non sembra esistere un posto per tutti. Per assurdo, credo che la crisi di questo modello stia aprendo davanti a noi il contrario di quello che ci viene prospettato: un incredibile numero di possibilità in rapporto ad un alto numero di cause delle quali ci si dovrebbe occupare.
Un campo vasto aperto all’associazionismo, al volontariato, al mercato solidale biologico ed ecologico, alla difesa dell’ambiente, dei diritti degli uomini e degli animali, la difesa dalle demagogie politiche e dall’informazione scadente, un campo in generale aperto alle competenze umanistiche nel suo insieme. Aristotele diceva che l’uomo è un’animale sociale; siamo tra le prime generazioni a vedere la necessità di un deciso cambiamento di rotta e se ci sarà, questo non potrà che derivare da noi.

Daniel Turini

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