Clima

DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI ALLE EMERGENZE UMANITARIE

30 Giugno 2017

Non è certo la prassi sentire associare alle emergenze umanitarie un’emergenza altrettanto grave  e globale quale quella dei cambiamenti climatici, ma se vogliamo affrontare a 360 gradi uno dei temi così caldi sul panorama internazionale è necessario partire da qui. Ecco perché a Festambiente Vicenza 2017, con la conferenza “Dai cambiamenti climatici alle emergenze umanitarie“, si è cercato di mettere sullo stesso tavolo Amnesty International, che si occupa di violazioni dei diritti umani, Medici Senza Frontiere, presente per le emergenze sanitarie in luoghi di guerra o di crisi umanitarie e Legambiente, che da sempre cerca di proteggere l’ambiente e di diffondere una sensibilità a fare lo stesso sia tra le persone comuni, che all’interno delle istituzioni e che quindi può aiutare a inquadrare il problema del cosiddetto “global warming”.

Grazie al confronto tra Nicola Della Pasqua, responsabile Veneto-Trentino Alto Adige per Amnesty International, Laura Guarenti, che da moltissimi anni è impegnata con Medici Senza Frontiere e Vittorio Cogliati Dezza, responsabile migranti per Legambiente Nazionale, si è puntualizzato innanzi tutto come il problema sia ancora all’inizio della sua definizione. Nella Convenzione di Ginevra del 1951, che riconosce i diritti dei rifugiati, le persone che scappano dai loro paesi d’origine per cause di tipo ambientale non vengono minimamente contemplate. Questo perché, come ha spiegato Nicola Della Pasqua, in quegli anni la climatologia non aveva ancora cominciato a mostrare con evidenza le conseguenze del tipo di sviluppo malato che l’uomo negli ultimi  due secoli ha esasperatamente rincorso.

Adesso è diverso: gli stravolgimenti che vediamo sul panorama globale sono molto complessi, difficili da inquadrare. Spesso se si va ad indagare si scopre che anche le guerre sono nate da siccità o condizioni ambientali che hanno reso particolarmente delicati e incandescenti certi equilibri prima sociali e poi politici, un po’ com’è successo in Siria. Eppure qualsiasi fonte di informazione abbiamo l’occasione di ascoltare, propone come unica classificazione un dualismo tra “migranti economici” e “rifugiati” e la tendenza è quella di riconoscere solo questi ultimi come titolari di qualche diritto.

Come racconta però Laura Guarenti, che ha ascoltato molte delle storie di persone che arrivano dalla Libia, nessuno è contento di lasciare il proprio Paese e soprattutto nessuno conosce i rischi che corre, quando viene messo in una barca con la promessa di una vita migliore o semplicemente come via di fuga dalle torture subite. Com’è possibile quindi fare una classificazione tra meritevoli e non meritevoli del diritto di asilo? Come spiega Vittorio Cogliati Dezza «lo sfollato interno è il primo gradino dell’emigrato», dove per sfollati interni si intende coloro che all’inizio si spostano nei confini del loro Paese, cercando condizioni di vita migliori. «Quello che nasce come profugo ambientale diventa profugo economico nelle cinture delle grandi città e quando non ce la fa più diventa profugo internazionale».

Ma al di là delle definizioni è soprattutto la forte contraddizione tra la misura reale del fenomeno e la sua percezione a creare problemi. Si sta facendo un uso politico della “drammatizzazione”, ma se si vanno a vedere i numeri si scopre, in primo luogo che la situazione è stabile rispetto al 2016, in secondo luogo che (dati UNHCR – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) tra i 31 milioni di nuovi sfollati, 6 milioni sono conseguenza delle guerre e ben 24 milioni dei cambiamenti climatici.

Come arrivare quindi  ad una soluzione? Come afferma Laura Guarenti «tutti noi siamo importanti e possiamo fare la differenza». Bisogna aumentare la massa critica per arrivare al riconoscimento dei diritti. Serve prima di tutto un riconoscimento dello status di “profugo ambientale” a livello internazionale. Perché  accada questo la legislazione deve essere rivista. Siamo al paradosso europeo per cui viene riconosciuta la libertà di spostamento delle merci e non quella delle persone. Si deve arrivare ad un diritto di asilo europeo e bisogna quindi ridiscutere la Convenzione di Dublino, secondo la quale il diritto di asilo deve essere riconosciuto nel primo stato che viene raggiunto dal migrante e lì poi il migrante deve restare.

Insomma il mondo sta cambiando, anche a causa delle politiche messe in atto a livello internazionale negli anni passati. Non c’è altra soluzione che prendere atto di questi cambiamenti in corso, cercare di comprenderli e prendersi anche le proprie responsabilità. Quello che è emerso alla conclusione del dibattito, è che anche queste persone possono diventare una risorsa, soprattutto in un continente vecchio (non solo storicamente, ma anche anagraficamente) come l’Europa. Come ha affermato Vittorio Cogliati Dezza: «bisogna puntare su un nuovo welfare», un nuovo benessere che accolga i giovani, quelli europei, ma anche quelli che arrivano da paesi in difficoltà e che con il loro bagaglio di esperienze e cultura possono anche contribuire a rendere il sistema europeo più dinamico, più equo e al passo con i tempi.

Rossana Andreato

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